miércoles, 16 de junio de 2010
Declaracion del Partido Comunista maoísta de Italia
CRISI - contro le false soluzioni del riformismo la "soluzione" è la rivoluzione
La crisi mostra la sua profondità. La crisi devastante che attraversa il
sistema imperialista mondiale mostra giorno dopo giorno la sua profondità.
Essa da crisi finanziaria si è trasformata in recessione mondiale. Come la
crisi sia nata nell'ambito finanziario per effetto della bolla speculativa è
stato ampiamente analizzato e descritto. Quello che occorre mettere in luce
è che essa è strettamente connessa alla natura stessa del sistema
imperialista. La finanziarizzazione dell'economia è stata lo sviluppo
inevitabile del capitale e data da lungo tempo.
Dietro la finanziarizzazione c'è la ricerca del massimo profitto e l'uso di
tutti gli strumenti finanziari e di tutte le strutture costruite
dall'imperialismo a questo scopo. I grandi finanzieri che hanno tirato la
corda di quella che impropriamente viene chiamata "speculazione", sono stati
messi sotto accusa, ma in realtà sono stati fedeli esecutori e interpreti
dell'esigenza del grande capitale, industriale, terziario o pubblico che
sia. I grandi capitalisti e i loro governi cercano ora di singolarizzare le
colpe, trovare dei capri espiatori per salvare innanzitutto l'immagine e poi
il funzionamento del sistema stesso.
Lo squilibrio di fondo è originato dallo sviluppo produttivo finalizzato al
profitto basato sullo sfruttamento della forza-lavoro e i profitti possibili
attraverso gli investimenti finanziari. Questo squilibrio non dipende dalla
volontà dei singoli ma dalla legge stessa che guida la ricerca del massimo
profitto da parte del capitale.
La presunta immoralità della speculazione finanziaria, l'assenza di regole
in essa di cui si parla, sono la norma in ogni tassello del sistema
capitalista e del movimento reale del capitale su scala mondiale.
La crisi ha avuto il merito di mettere a nudo tutto questo, di rendere
evidente questo funzionamento mandando in frantumi, di conseguenza,
l'immagine che il capitale e il suo sistema dà di sé. Come nell'attività
produttiva il capitale cerca costantemente di affinare macchine e metodi per
trarre il massimo dallo sfruttamento operaio e dall'utilizzo intensivo dei
mezzi di produzione e materie prime, lo stesso avviene nel campo
dell'attività finanziaria. Anche qui si sono inventati via via sistemi
sempre più sofisticati ed efficaci di una macchina produttrice di denaro e
riproduttrice di profitto.
La crisi ha messo in particolare luce il rapporto tra questo gigantesco
sistema e una serie di fattori molto legati al coinvolgimento dei proletari
e delle masse popolari negli ingranaggi del sistema stesso. In particolare i
meccanismi legati ai mutui, al credito drogato al consumo, ai fondi
pensioni, ecc., hanno dato la possibilità al capitale finanziario di
succhiare dieci volte lo stesso sangue all'operaio, reso oltre che operaio
industriale anche consumatore, acquirente di case, sottoscrittore di Fondi
pensioni, ecc.
Questo scarica in forme non solo indirette ma anche dirette e moltiplicate
la crisi finanziaria sui proletari e le masse.
L' accentuata globalizzazione si è trasformata da arena dell'esercizio
allargato della finanziarizzazione dell'economia in generatore e
generalizzatore globale della crisi stessa, una volta scoppiata nel suo
centro finanziario mondiale.
In questo senso si può dire che si tratta di una crisi senza precedenti, di
ampiezza mondiale senza precedenti, e quindi anche superiore a quella del
'29 su scala mondiale.
Abbiamo già detto che la crisi sottintende il funzionamento reale del
sistema capitalista e la legge che lo determina. Ma tutto questo in questa
crisi si cerca di nascondere. Perchè vi è tutto l'interesse ad uscire dalla
crisi salvando il sistema capitalista.
Ma ci sono aspetti della crisi reale che hanno un ruolo fondamentale.
La crisi di sovrapproduzione dovuta al fatto che il sistema mondiale produce
merci, sebbene insufficienti a soddisfare i bisogni mondiali della
popolazione due terzi della quale vive al di sotto del minimo necessario,
eccessive per l'interesse del capitale dato che esso produce fino a che può
ricavare profitto. E quindi ci si trova costantemente e fisiologicamente e
patologicamente ciclicamente ad una insufficiente produzione rispetto ai
bisogni e ad un eccesso di produzione rispetto alle capacità di acquisto.
A fronte di questo stato delle cose si mettono in moto due processi,
anch'essi apparentemente contraddittori, uno, si produce sempre di più a
minor profitto, si ricercano profitti in campi e settori dove possono
moltiplicarsi più facilmente, cercando così di sganciarsi dalla caduta
tendenziale del profitto stesso
Il sistema imperialista produce quindi oltre che sovrapproduzione di merci,
una eccedenza di capitali che attraverso la finanziarizzazione e la
globalizzazione dell'economia si moltiplicano, diventando il centro del
sistema economico mondiale e mina vangante dello stesso.
In questo senso la crisi attuale, come tutte le crisi cicliche del
capitalismo, non ha che due vie d'uscita: una, realizzare quella distruzione
di capitali e di merci atta a riattivare la produzione e il profitto, e
affrontare un altro ciclo di quello che possiamo chiamare 'circuito
virtuoso' del capitale che ne permette la sopravvivenza e sviluppo; l'altra
mettere fine alla crisi stessa rimuovendone le cause di fondo che l'hanno
provocata.
Partire da un punto di vista di classe. Nell'affrontare la questione occorre
necessariamente partire da un punto di vista di classe, cioè che cosa è
nell'interesse del proletariato e delle masse popolari.
Primo. Non abbiamo interesse che la crisi si "risolva" dal punto di vista
del capitale; quindi dobbiamo smascherare le interpretazioni e le soluzioni
della crisi che vanno nell'interesse del capitale e che si traducono nello
scaricamento di essa sulle spalle dei proletari e delle masse popolari.
Il capitalismo mobilita i suoi governi e i suoi Stati per fronteggiare
l'emergenza principalmente finanziaria, e rilanciare la produzione creando
nuove occasioni di profitto, riducendo i costi, in primis il costo del
lavoro. Se la soluzione del capitale va avanti la crisi si risolve; certo
creando le condizioni epocali per una crisi ciclica ancora più dura in
futuro, ma intanto si "risolve". Il capitale è oggi più forte che nel '29
per risolvere la sua crisi. Le sue strutture concentrate e cooperanti sono
molto esercitate, lubrificate e la costruzione dell'unità di intenti tra di
loro più facile che nel passato.
Contrastare le soluzioni del capitale è un aspetto decisivo per
l'approfondimento della crisi stessa. La discarica di essa sui proletari ne
provoca le reazioni, alimenta la lotta di classe, e ci sono le condizioni
più favorevoli per contrastare le soluzioni capitaliste della crisi.
Ma il contrasto verso i piani del capitale deve essere reale e deve
distinguersi da essi nettamente nell'analisi e nella terapia. Far passare e
alimentare l'idea nel proletariato che la crisi sia fondamentalmente
originata dalla speculazione finanziaria, lungi dall'essere una "lotta
contro la crisi", è una compagna di strada del capitale.
Non distinguersi nell'analisi della crisi, provoca un'alleanza
capitale-lavoro per uscire da essa, alleanza che serve solo gli interessi
del capitale.
Il capitale attualmente ha bisogno assoluto del ruolo dello Stato, dopo la
sbornia neoliberista, delle risorse di esso per ridurre i danni della
devastazione finanziaria, socializzare le perdite e riattivare i meccanismi
del profitto. Perorare, quindi, un nuovo intervento dello Stato
nell'economia, fino a nazionalizzare banche o industrie in crisi coincide
con l'interesse oggettivo del capitale di uscire dalla crisi e contribuisce
alla realizzazione di quell'interesse generale del capitale che ha bisogno
in fase di crisi di imporsi, anche con l'aiuto della lotta operaia,
all'interesse privato dei singoli capitalisti o a quello di frazioni di esso
che sono l'incrocio dei profittatori falliti della pre crisi e dei pesi
ingombranti della sua ripresa.
In questo senso, è proprio l'alleanza tra interessi del capitale e
"salvatori" dalla crisi il nemico principale che i proletari devono
combattere.
Due varianti di questa situazione sono: i sostenitori che l'uscita dalla
crisi debba avvenire con la ripresa dei consumi, secondo la teoria che il
capitale nella sua sete di profitto abbia ridotto i salari in modo tale che
non possono acquistare i prodotti, per cui rilanciando i salari si rilancia
il consumo e quindi la produzione, si emancipa il capitale industriale dalla
sua finanziarizzazione, e... il capitale prospera nuovamente. A parte che si
tratta di una sorta di "favola consolatoria",viene trascurato il carattere
della produzione capitalista come produzione di merci e dello stesso
lavoratore come merce, che fa sì che non il consumo ma la produzione sia la
fonte del profitto e che non l'assorbimento del consumo sia il fine del
salario, ma quello della riproduzione della forza-lavoro. Di conseguenza non
ci può essere produzione là dove non c'è profitto e né espansione del
salario tale da assorbire la produzione.
Il risultato effettivo di questa impostazione è di propugnare al massimo una
lotta sindacale estrema, motore dello sviluppo del capitale, esattamente
l'opposto dell'interesse del proletariato come classe del superamento del
capitale.
La seconda posizione è una forma di neo Keynesianismo estremo, la quale
sostiene che vi deve essere intervento dello Stato, ma questo intervento
deve servire a indirizzare e anche a cambiare il capitale; e quindi l'aiuto
al capitale non è per far riprendere il capitale così com'è ma per
indirizzarlo verso produzioni ad alta occupazione, verso la bonifica
ambientale, verso una statalizzazione più strutturata.
A parte la facile considerazione che si tratta di un già visto, i cui esiti
furono nazismo e II guerra mondiale, entrando nel merito.
'Alta occupazione'? Lo sviluppo dell'automazione e informatizzazione della
produzione hanno reso i settori legati ad essa gli unici a più alto profitto
e con minore caduta del saggio di profitto. Ciò rende impossibile che, salvo
autodistruzione e ritorno all' 'età della pietra', i settori ad alta
occupazione possano diventare i settori di ripresa del capitale.
'Bonifica ambientale'? Anche qui la funzione dell'intervento dello Stato
sarebbe quella di creare nuove fonti di profitto che diventino appetibili
per il capitale, a fronte della saturazione di alcune delle fonti
attualmente in uso. Questo non è altro che un processo di travaso degli
attuali mezzi di produzione, compresa la forza-lavoro, non un fattore di sua
espansione e sviluppo; e, fermo restando la questione profitto come ragione
della produzione, questo accentuerebbe ancora di più il divario, pur
esistente e concausa della crisi, tra produzione e consumo (vedi questione
auto ecologica e piano Obama).
'Statalizzazione più strutturata'? Essa è possibile in campi della
produzione in cui la concentrazione del rapporto Stato/industria è
organica - vedi l'industria bellica e la militarizzazione dell'economia o la
neo nuclearizzazione.
Quindi, chi perora queste "soluzioni" come uscita dalla crisi, non solo è
sostenitore che il capitale riprenda, ma nel contesto attuale propugna
soluzioni peggiori del male.
Per queste ragioni obiettive il contrasto nella crisi, dal punto di vista
del proletariato come classe sociale deve organizzarsi e agire non solo
contro il capitale e i suoi governi, ma fuori dall'intero arco delle attuali
opposizioni, in tutti i paesi imperialisti, e sul piano internazionale, nel
quadro della contraddizione imperialismo/popoli oppressi, fuori da buona
parte dell'opposizione che si definisce antimperialista, movimento
antiglobalizzazione, fondamentalismo islamico, movimenti di liberazione
nazionalistici, ecc.
Questa crisi ha un solo merito reale l'affermazione dell'analisi marxista
del capitale e delle sue crisi, che montagne di sacerdoti, filosofi,
scienziati e politici del capitale avevano voluto cancellare, sia nella
trionfante affermazione del neoliberismo, sia con il riformismo
socialdemocratico e revisionista. La "vecchia talpa" ha scavato nelle
fondamenta delle teorie degli apologeti di questo sistema.
Tutto questo viene alla luce e le armi feconde della critica marxista è a
fondamento della "critica delle armi", cioè della rivoluzione necessaria,
come uscita non del capitale dalla crisi, ma dell'umanità dalla crisi del
capitale.
La crisi sembra voler dare nuovo spazio ai riformisti. I riformisti anche
estremi avevano sostenuto finora che il capitalismo sempre era riformabile e
che l'idea di una sua crisi irreversibile facesse parte ormai di teorie
obsolete, fenomeno ormai morto e sepolto. Ora, a fronte della crisi,
cambiano ruolo e riciclano la "riformabilità del capitalismo della pre
crisi" con la sua "salvabilità, ora post crisi".
Si tratta di un cambiamento di posizione, per mantenere lo stesso ruolo.
L'effettiva realtà di questa crisi devastante, che permette la ripresa del
marxismo e delle sue categorie di analisi, costituisce indubbiamente una
novità positiva nel movimento operaio e nel movimento comunista.
Ma comporta anche l'insidia di un utilizzo del marxismo non corretto dentro
la lotta proletaria nella crisi e soprattutto dentro la prospettiva del
grande salto per il nuovo inizio che il movimento comunista può fare nelle
condizioni create dalla crisi stessa. Il complesso delle argomentazioni di
questa posizione parte dall'assunto della descrizione della crisi come
categoria generale e permanente del capitalismo di cui questa crisi non
sarebbe che l'ultima e più generale rappresentazione e che obiettivamente fa
corrispondere a questa descrizione una visione di essa come catastrofica e
insuperabile. L'anti riformismo contenuto in questa posizione e la nuova
fiducia che ispira verso le possibilità della rivoluzione, sono fatti
indubbiamente salutari e positivi. Ma portano con sé un insidia, anch'essa
non nuova nel movimento comunista, che è quella di non analizzare i
caratteri specifici della crisi e della sua influenza specifica nella
politica e nell'azione della borghesia. Rimandare solo al suo carattere
generale significa sostenere che il capitalismo è in crisi da sempre, negare
che nel capitalismo le crisi sono cicliche e non permanenti, fino alla
visione conclusiva del suo carattere catastrofico e insuperabile.
Questo complesso di ragionamenti ha l'effetto principale di dare per morto
ciò che ancora vivo e vegeto.
Questi ragionamenti trasformano l'affermazione di potenza del comunismo che
obiettivamente emerge dalla crisi, in impotenza dei comunisti nell'agire
nella crisi come fattore di contrasto e approfondimento.
Il capitalismo ha messo in azione un ventaglio di soluzioni buone per tutti
i gusti e capaci di mobilitare a suo sostegno tutte le forze. Per i
comunisti è decisivo stare dentro il contrasto con ognuna di esse e con
tutte insieme, per approfondire il contrasto capitale/lavoro, Stato/masse,
riformismo/masse, per trasformare le potenzialità della crisi in possibilità
di rivoluzione.
La crisi ha avuto il suo centro negli Stati Uniti e ha reso evidente come
l'imperialismo USA, sia pur egemone, è un imperialismo in crisi. Questo
manda in frantumi l'idea che il futuro sia caratterizzato da un ordine
mondiale unipolare a dominio USA. La fase dell'era Bush e del post '89 è una
parentesi della storia non la fine della storia. L'assetto del mondo già
prima del '89 sul piano economico e geostrategico era multipolare, il
bipolarismo era dominante solo sul piano militare, questione certo
abbastanza determinante ma non decisiva. Le contraddizioni interimperialiste
Usa, paesi europei, Giappone, Russia, le nuove potenze emergenti Cina,
India, nella crisi dell'imperialismo USA, sono destinate ad accentuarsi,
anche se siamo ben lungi da una loro precipitazione in una nuova guerra. Per
questa mancano ancora diversi fattori, primo tra tutti il ridefinirsi delle
alleanze sul piano dell'unione tra economico e militare, vero cemento di
ogni alleanza imperialista.
Non corrisponde neanche a realtà che la crisi dia vita ad una nuova guerra
fredda, cioè alla ripresa di una contesa Usa/Russia o che sia all'orizzonte
un nuovo bipolarismo in cui questa volta i contendenti sarebbero Usa e Cina.
La crisi chiama l'imperialismo USA ad uno sforzo particolare, la presidenza
Obama è sul piano politico un tentativo in questa direzione. La crisi è
globale ma non colpisce in egual misura tutti i paesi. Quello che è certo è
che essa incoraggia nel mare aperto da essa creata, tutti i contendenti
imperialisti a cercare nell'uscita dalla crisi, l'opportunità per
ricollocarsi con più forza nella contesa mondiale.
Ma ricollocarsi non è così facile, gli effetti perversi della
finanziarizzazione hanno creato forme di cointeressi che stridono con la
sfera di influenza di ciascuno dei contendenti. Questo rende molto
intrecciata la situazione ed è la definizione leninista dell'imperialismo
che ci aiuta a decifrarla.
Guardando ad una fotografia della situazione attuale l'accordo Usa/India e
l'intervento americano in Iraq, Afghanistan e il dominio attuale del Medio
Oriente spinge verso un'alleanza Russia/Cina. Il Giappone è conteso tra
un'alleanza strategica con gli Stati Uniti e l'esigenza di mantenere e
sviluppare un suo ruolo di potenza asiatica divenuta ora sempre più
difficile con l'ascesa del gigante cinese. La Russia permane nella sua
contesa con gli Stati Uniti e ha ridato alla dittatura borghese di Putin
tutta la necessità di riscoprire e rivalutare in termini nazional
imperialisti sia l'antica eredità zarista come la più recente da Stalin a
Brezniev.
La crisi pone grandi problemi ai paesi imperialisti europei che, da un lato,
sono legati al ruolo che gli Usa svolgono nella finanza mondiale, dall'altro
hanno l'esigenza a diversi livelli e secondo diversi ambiti di approfittare
delle difficoltà dell'imperialismo Usa in tutto lo scacchiere mondiale.
Alcuni paesi imperialisti europei, tra cui l'Italia, hanno interesse ad
aumentare i loro legami con la Russia, così come altri a stabilire un
rapporto di complementarietà con la Cina e la sfera asiatica, di mantenere
la loro presenza imperiale in alcuni gangli vitali noti e meno noti dei
paesi del Terzo Mondo e delle loro immense ricchezze giacenti. In Medio
Oriente, in Africa gli imperialisti europei non sembrano però in grado di
mantenere le posizioni a fronte del dominio americano e della crescente
presenza cinese.
Comunque grande è il disordine sotto il cielo che la crisi ha portato alla
luce. La materia incandescente delle contraddizioni interimperialiste cova
inesorabilmente i germi di un nuovo conflitto mondiale. I tempi di esso
appaiono ancora lunghi ma non vuol dire che non agiscano fin da ora.
E' erronea la posizione che guarda agli Usa come dominatori del mondo, unica
superpotenza e che per questo perorano un fronte unito mondiale contro
l'imperialismo USA. Questa posizione lega obiettivamente le lotte proletarie
e dei popoli agli imperialismi concorrenti e trasforma le lotte proletarie e
i movimenti di liberazione in succubi e compartecipi della contesa
interimperialista. Perfino nei luoghi in cui l'imperialismo Usa interviene
direttamente - Iraq, Afghanistan, Medio Oriente con il gendarme israeliano,
America Latina - la lotta contro l'imperialismo Usa non deve lasciare alcun
spazio alla subordinazione agli altri imperialismi.
I processi che innesca la crisi sono sostanzialmente uguali in tutto il
mondo: contenere i danni dei crack bancari, intervenire a sostegno delle
industrie in crisi, favorire una ristrutturazione di collocazione di esse
sul mercato mondiale. Questo esige l'abbassamento del costo del lavoro,
l'ulteriore taglio delle spese sociali, mantenere bassi i prezzi
dell'energia e delle materie prime, in una gara in cui chi riesce prima
guadagna terreno sugli altri.
Questo domanda uno Stato ancora più schiacciato sugli interessi immediati
del grande capitale, uno Stato forte e militarizzato per imporre a tutti
queste soluzioni e contenere l'inevitabile protesta sociale, ribellione dei
proletari e dei popoli in cui la crisi è scaricata. Le soluzioni sono
identiche indipendentemente dalla forma dei governi e la reazionarizzazione
generale è l'unica tendenza che si afferma.
In ciascun paese essa assume i colori legata alla storia di questo paese e
alle sua trasformazioni, ma è importante vederne i tratti comuni e
considerare che da un lato si accentua la lotta di classe e dall'altro si
attenua la dialettica governo/opposizione nelle sfere istituzionali,
parlamentari di ogni paese .
Dal punto di vista del proletariato e dei popoli avanza la necessità di
contrastare la discarica della crisi sulla propria pelle e di dover fare
questa lotta con mezzi rivoluzionari e con fini rivoluzionari.
Quindi ci sono condizioni favorevoli non solo allo sviluppo della lotta di
classe ma al formarsi della coscienza rivoluzionaria e comunista.
Ma serve l'analisi concreta della situazione concreta, dato che esiste uno
sviluppo disuguale che comporta uno sviluppo disuguale della lotta di classe
e dei processi rivoluzionari. Lo sviluppo disuguale influenza la strategia e
inquadra la tattica.
Lo sviluppo disuguale è fondamentale anche nella definizione programmatica
della lotta per il socialismo. Essa deve tener conto della condizione
concreta di ciascun paese nella catena imperialista e delle sue differenze.
Una visione schematico-dottrinaria del socialismo contiene in sé elementi
ora di immediatismo ora di attesismo, ora estremisti, ora opportunisti, che
non consentono ai comunisti di cogliere l'effettiva opportunità della
situazione mondiale e dei riflessi in ogni paese e di porsi alla testa di
una lotta rivoluzionaria del proletariato quanto mai matura e sempre più
obbligata.
La lotta rivoluzionaria non è la soluzione della crisi dell'imperialismo,
serve ad acuire la crisi e sviluppare le condizioni migliori per il
superamento del capitalismo che la genera.
PCm -italy
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